di Camilla Veneziani
Henrik Ibsen
Henrik Johan Ibsen fu uno scrittore, poeta, regista teatrale ed è considerato il padre della drammaturgia moderna.
Nato a Skien (una piccola cittadina norvegese) il 20 marzo 1828, Ibsen era cresciuto in un ambiente borghese finché il padre aveva perso tutto in un repentino dissesto finanziario. Era iniziato così il pellegrinare della famiglia alla ricerca di stabilità, fino all’approdo a Grimstad, dove il giovane Henrik lavorò anche come apprendista in una farmacia e dove cominciò a scrivere: nel 1949, vedrà la luce la sua prima poesia, I Høsten (In autunno).
Da questo momento in poi, nonostante le persistenti difficoltà finanziarie, Ibsen continuerà a scrivere e a muoversi per il paese in cerca di fortuna come drammaturgo fino all’arrivo a Christiania nel 1857, dove firmò il contratto come direttore artistico del Kristiania Norske Theater e dove visse un periodo fruttuoso sia a livello umano (si formò infatti un gruppo di estimatori del lavoro di Ibsen), sia letterario (scrisse quattro opere in sei anni). Nel 1864, con la guerra dello Schleswig-Holstein (tra la confederazione germanica e il regno di Danimarca), la mancata presa di posizione della Norvegia fece maturare una profonda scissione tra il drammaturgo e la sua patria. Questo portò Ibsen in Italia, di cui si innamorò all’istante. Dal 1864 al 1891 visse in diverse città italiane quali: Roma, Ischia, Sorrento, Amalfi e Casamicciola. Dopo questa data Ibsen tornò a Kristiania e, colpito da una paralisi, nel 1900 morì sei anni dopo, il 23 maggio 1906.

Le opere di Ibsen arrivano in Italia già dal 1921 con Casa di bambola per la casa editrice Facchi di Milano, con la traduzione di Silvio Catalano, mentre la prima versione italiana del Peer Gynt risale al 1925 con la traduzione di Domenico Lanza per Treves e nel 1929 seguirà quella per la casa editrice Maia, fatta da Italo Vitalino. Da questi anni in poi le opere di Ibsen avranno sempre più successo in Italia, e la loro pubblicazione sarà costante, anche durante il secondo conflitto mondiale.
Peer Gynt a Torino
In seguito a un viaggio nel 1867 tra Ischia e Sorrento, Ibsen compose un dramma in versi di genere fantastico, il Peer Gynt: un testo complesso, di difficile messa in scena visti i continui cambi di cornice (compreso un atto intero che si svolge nell’oscurità totale), e reso poi famoso anche dalle partiture di Edvard Gried, che Ibsen gli aveva chiesto personalmente.
Il Peer Gynt approdò a Torino per la prima volta l’11 ottobre 1928 con la Compagnia per l’Arte Drammatica di Sem Benelli e l’allestimento scenico curato da Salvini e Caramba più la parte musicale del direttore dell’orchestra Gaetano De Napoli. Passarono circa quarantacinque anni, e all’inizio degli anni settanta, per l’esattezza il 14 dicembre 1972, Peer Gynt tornò di nuovo su un palco torinese, quello del Teatro Alfieri, questa volta con la regia di Aldo Trionfo e le scene e i costumi di Emanuele Luzzati. Luzzati era amico di Levi (lo definisce così in una lettera con Heinz Riedt del 1° gennaio 1966), ed è dunque possibile, se non molto probabile, che abbia assistito allo spettacolo all’Alfieri o addirittura alla Prima, che era stata non a Torino ma ad Asti, qualche giorno prima.
Ed è anche probabile che, dopo questa visione, Levi abbia ripreso in mano Ibsen, tanto da richiamarlo due volte nei suoi scritti dei mesi successivi: una volta nel racconto Potassio dove l’autore annovera il drammaturgo tra le letture predilette dall’Assistente:
«Aveva trent’anni, era sposato da poco, veniva da Trieste ma era di origine greca, conosceva quattro lingue, amava la musica, Huxley, Ibsen, Conrad, ed il Thomas Mann a me caro. Amava anche la fisica, ma aveva in sospetto ogni attività che fosse tesa ad uno scopo: perciò era nobilmente pigro, e detestava il fascismo naturaliter.»
(OC, I, 901)
e una seconda in Cromo, dove Levi evoca specificatamente il personaggio del “Gran Curvo”, la voce dall’oscurità del Peer Gynt:
«Mi buttai nel lavoro con lo stesso animo con cui, in un tempo non lontano, attaccavamo una parete di roccia; e l’avversario era sempre ancora quello, il non-io, il Gran Curvo, la Hyle: la materia stupida, neghittosamente nemica come è nemica la stupidità umana, e come quella forte della sua ottusità passiva»
(OC, I, 973)
La stesura di Cromo risale a pochi mesi dopo la rappresentazione del Peer Gynt: secondo quanto riporta Carol Angier (Il doppio legame, p. 794), il dattiloscritto del racconto conservato nell’Archivio Einaudi è datato 18 novembre 1973.
Finora erano queste le prime attestazioni di Ibsen nell’opera di Levi, e si poteva pensare che quello del Teatro Alfieri potesse essere stato, se non il primo “vero” incontro tra Ibsen e Levi, almeno quello attraverso cui ne aveva percepito l’importanza e forse una certa risonanza emotiva e dell’immaginazione.

“Atmosfere ibseniane”
Oggi però, una lettera inviata a Hans J. Frӧhlich e datata 4 settembre 1962 consente di retrodatare i suoi interessi ibseniani a ben prima del 1972.
Dopo aver letto il dramma teatrale del giovane scrittore Hans Jürgen Frӧhlich, Vier Wände (“Quattro mura”), Levi così commentò:
«mi sembra riproduca bene una certa atmosfera ibseniana che pervadeva la Germania dell’“anno zero”, e forse ancora quella di oggi»
(Lettera 72)
Non è facile capire perché Levi, in modo inaspettato, tiri fuori questa «atmosfera ibseniana». Si aprono vari scenari. Si può ipotizzare che avesse avuto e letto I drammi di Ibsen usciti in due volumi per la casa editrice Einaudi con la traduzione di Anita Rho nel 1959, appena tre anni prima di questa lettera; l’introduzione era firmata dal suo amico Franco Antonicelli. Ma è anche possibile che Levi avesse una frequentazione assidua di lettura con lo scrittore e drammaturgo norvegese.

Senza troppe forzature, comunque, Vier Wände – che nonostante il tentativo di Levi di mediazione presso la casa editrice Einaudi, non verrà mai stampato – potrebbe essere accostato alla tragicità che si trova nei testi di Ibsen. Abbiamo avuto la possibilità di leggere Vier Wände, dal momento che il testo dattiloscritto è conservato presso il Deutsches Literaturarchiv di Marbach. È un dramma di ambientazione borghese suddiviso in due atti e si svolge letteralmente tra le “Quattro mura” di casa Bosco. A un anno dalla morte del padre Leonard Bosco, la parte femminile della famiglia organizza l’ultima cena a cui il padre aveva preso parte, scatenando le ire di Gregor, l’unico figlio maschio. Figlio che da una parte vorrebbe seguire le orme del padre e dall’altra però prova sentimenti contrastanti verso di lui, così, dopo una serie di violente invettive contro le sorelle e la madre, finisce per commettere un simbolico parricidio, sacrificando il cane un tempo tanto amato dal genitore.
Questo accostamento a Ibsen, non si trova tanto nel sacrificio del cane, culmine di un tormento troppo a lungo taciuto, ma nei conflitti nati all’interno di una famiglia di stampo borghese, che porteranno a questo atto estremo. (Cfr. la Biografia di Frӧhlich)
Sono ancora pochissimi dati di una ricerca tutta ancora da svolgere. Tuttavia, si può dire che Primo Levi conoscesse Ibsen, forse non profondamente come conosceva Thomas Mann, ma sicuramente abbastanza da farlo in parte suo.