di Alice Gardoncini
Uno specialista
Ciò che oggi resta materialmente del lavoro di Hermann Langbein è raccolto e conservato all’archivio di Stato di Vienna, nei 293 faldoni che compongono il fondo Langbein, versato all’archivio un anno dopo la sua morte.
Chiedendo in consultazione a gruppi di tre i faldoni e i fascicoli lì raccolti, si va pian piano configurando nella mente di chi cerca di ricostruire l’impegno politico e storico di questo «uomo formidabile» l’immagine composita di una mole mastodontica di carte, ritagli, fotografie, indirizzari, quaderni e liste apparentemente infinite: una metafora cartacea in grado di rispondere alla domanda su cosa abbia concretamente significato, dal dopoguerra agli anni novanta, lottare per la giustizia e per la memoria di Auschwitz.
La memoria non è un oggetto dato e definito una volta per tutte, ma piuttosto un archivio comune che va costruito pezzo per pezzo intessendo reti epistolari estese e ramificate, raccolto inseguendo migliaia di singole ed effimere memorie personali, ordinato, studiato e passato al vaglio a posteriori. Dopo i sei anni e mezzo di prigionia in diversi campi di internamento, l’esistenza di Hermann Langbein dal 1945 al 1995 sarà completamente dedicata a questo lavoro di una vita.
Nel racconto Auschwitz, città tranquilla, Primo Levi definisce Hermann Langbein «uno “specialista”, un ex prigioniero che oggi è un famoso storico dei Lager» (OC II, p. 1039). E infatti oggi Langbein è noto, in Europa e (proprio grazie a Levi) anche in Italia, soprattutto per essere l’autore di una delle più dettagliate e autorevoli opere storiografiche su Auschwitz (Uomini ad Auschwitz). Ma a Langbein la categoria di storico sta stretta: egli è stato, per l’appunto, qualcosa di più e di difficilmente definibile, uno “specialista”. Uomini ad Auschwitz e le altre pubblicazioni dell’autore non sono in realtà che la punta visibile di un iceberg sommerso. Il maggiore e più fecondo ambito verso cui si sono convogliate le sue energie resta ancora oggi in parte non riconosciuto perché quello era per sua natura un lavoro da svolgere nell’ombra, prima che la luce dei riflettori si accendesse attirando l’attenzione dell’opinione pubblica, e – anzi – affinché tale luce si accendesse proprio sulle persone che dovevano trovarsi al centro dell’attenzione, ovvero il lavoro di preparazione dei processi contro i criminali nazisti.
A partire dalla denuncia del 1955 contro Carl Clauberg, medico nazista rimpatriato in Germania Ovest dopo essere stato sette anni prigioniero di guerra in Unione Sovietica, passando per Mengele, Eichmann e moltissimi altri famigerati nazisti, Langbein è stato una figura centrale nel ricostruire, rintracciare e cercare prove intorno ai crimini commessi dai nazisti. Se il processo di Norimberga, quello di Eichmann a Gerusalemme e il grande processo Auschwitz di Francoforte sono oggi tre eventi notissimi che hanno contribuito a creare categorie giuridiche e filosofiche oggi costitutive del diritto e della filosofia morale, d’altra parte, la storia di come la giustizia nell’Europa del secondo dopoguerra ha cercato prima di descrivere e poi di perseguire crimini innominabili è complicata e tortuosa, da un certo punto di vista poco nota e sorprendente.
Norimberga e la denazificazione
Per la storiografia è difficile anche solo stabilire con esattezza quanti processi contro crimini nazisti siano stati celebrati dal dopoguerra a oggi, ma le ricerche più recenti riportano per esempio, solo nel caso della Germania Ovest (e in seguito della Germania) 36.393 procedimenti penali aperti, per un totale di 4964 processi tra il 1945 e il 2005, in cui si contano 14.693 imputati (condannati nel 48% dei casi, Eichmüller 2008, p. 631-2). Per tracciare un quadro generale del fenomeno, contestualizzando all’interno di esso da un lato il coinvolgimento personale di Langbein e di Levi e dall’altro i procedimenti citati all’interno del carteggio tra i due, è bene partire da una periodizzazione di massima.
La prima fase è rappresentata dai processi condotti da tribunali internazionali nelle quattro zone di occupazione e dai diversi processi nazionali che si svolsero negli stessi anni. Infatti, già prima della fine della guerra gli alleati si erano accordati per istituire dei tribunali che giudicassero i crimini del nazionalsocialismo, e con la dichiarazione di Mosca del novembre 1943 erano state istituite due distinte categorie di crimini: quelli commessi in un territorio specifico, che dovevano essere giudicati da tribunali locali dei paesi in cui erano stati commessi, e quelli perpetrati sulla base di “principi criminali”, che sarebbero stati giudicati da tribunali internazionali congiunti dei governi alleati.
Alla seconda categoria appartengono i celebri Processi di Norimberga. Tra il 29 ottobre 1945 e il 1° ottobre 1946 fu appunto un Tribunale Internazionale Militare a giudicare ventiquattro gerarchi nazisti nel principale procedimento, che fu seguìto da altri dodici processi secondari. La legge a cui si attennero era la n. 10 della Commissione Alleata di Controllo (del 20 dicembre 1945), che istituiva la nuova categoria giuridica di «crimini contro l’umanità». Il processo si concluse con diciannove condanne (di cui dodici pene capitali), tra cui quelle di Hermann Göring, Joachim von Ribbentrop, Alfred Rosenberg, Ernst Kaltenbrunner.
D’altra parte, in base al principio della territorialità, un criminale come Rudolf Höß, il famigerato comandante di Auschwitz, a Norimberga fu solo chiamato a deporre come testimone (nella difesa di Kaltenbrunner), ma fu poi trasferito in Polonia come imputato nel processo per i crimini da lui commessi ad Auschwitz e lì condannato a morte per impiccagione di fronte all’ingresso del campo, il 16 aprile 1947. A questo processo, tra l’altro, parteciparono in qualità di testimoni anche i piemontesi Leonardo De Benedetti e Enrica Jona (le loro deposizioni sono del 22 marzo 1947), accompagnati dal presidente del Comitato Ricerche Deportati Ebrei, Massimo Adolfo Vitale, che presentò anche una deposizione di Primo Levi (Levi 2015, p. 212-13).
Norimberga doveva essere per gli alleati l’occasione di condannare il regime nazionalsocialista in quanto sistema, riorientando la società in direzione democratica. Nell’opinione pubblica tedesca, che pure riconosceva la necessità di punire i colpevoli, venne però percepito come un atto di giustizia punitiva dei vincitori sui vinti, con pesanti conseguenze sul decennio successivo (Pendas 2006, p. 10-11).
Il silenzio degli anni cinquanta
Il processo di denazificazione voluto e iniziato dagli Alleati nel primo dopoguerra doveva procedere di pari passo con la ricostruzione dei singoli stati nazionali, nello specifico con la creazione delle due Germanie e dei rispettivi sistemi giuridici. Tuttavia, con la conquista dell’autonomia e della sovranità nazionale, negli anni Cinquanta in Germania Ovest si assistette non solo all’abbandono della legge n. 10 in favore della legge ordinaria, con tutti i limiti del caso (Ponso, p. 154), ma soprattutto a un drastico calo dei processi contro i criminali nazisti, in parte per l’inadeguatezza del sistema giuridico, in parte per la sostanziale continuità tra la classe dirigente nazista e quella della neonata repubblica. Il silenzio sul recentissimo passato nazista divenne in qualche modo un prerequisito della stabilizzazione democratica della Repubblica Federale (Lübbe 1983, pp. 587 e sg.), e il primo periodo dell’era Adenauer fu caratterizzata da una serie di clamorose amnistie (la prima nel 1949 e la seconda nel 1954) e da diversi scandali che attirarono l’attenzione su ex nazisti in posizioni chiave (di vedano i casi di Wolfgang Fränkel, Hans Globke e Theodor Oberländer).
In questo contesto, nel 1954, nacque il Comitato Internazionale di Auschwitz (IAK), con Langbein come Segretario Generale: il comitato aveva tra i suoi principali scopi quello di rintracciare e riunire gli ex deportati e in questo modo raccogliere prove e testimonianze contro i crimini commessi per far partire le denunce. Le prime arrivarono a stretto giro e furono quelle contro i medici SS Carl Clauberg (nel 1955) e Joseph Mengele (nel 1956).
Si creò così una circostanza paradossale, sintetizzata da Primo Levi in un intervento uscito su «La Stampa» il 23 dicembre 1960. L’occasione è la cattura di Richard Baer, il successore di Höß alla direzione di Auschwitz: Baer sarebbe diventato il principale imputato nel Processo di Francoforte, se non fosse morto poco prima del suo inizio: «[…] molto meno pronte si sono dimostrate polizia e magistratura nel condurre a termine l’opera di epurazione iniziata dagli alleati: così si è giunti alla sconcertante situazione di oggi, in cui può avvenire che un comandante di Auschwitz viva e lavori indisturbato in Germania per quindici anni, e che il carnefice di milioni di innocenti venga rintracciato non già dalla polizia tedesca, ma “illegalmente” da vittime sfuggite alla sua mano» (OC II, p. 1083).
Gli anni sessanta
Qualcosa però stava già cambiando: nel 1958 l’opinione pubblica tedesca si era confrontata con alcuni processi, tra cui quello agli Einsatzgruppen di Ulm (del 28 aprile 1958), che prese forma a partire da indagini isolate nate quasi per caso da una causa intentata da parte di Bernhard Fischer-Schweder (durante la guerra funzionario della polizia di occupazione in Lituania) per la propria reintegrazione. La magistratura iniziò a indagare portando alla luce gli omicidi di più di cinquemila ebrei da parte di dieci membri delle SS. Nel processo vennero ascoltati per la prima volta 173 testimoni, e a dare scandalo fu soprattutto il fatto che tutti gli imputati vivessero tranquillamente integrati nel miracolo economico della Germania occidentale (Speccher 2022, p. 87).
A quel punto divenne evidente la necessità di condurre le indagini in modo sistematico e a tal fine venne istituita la cosiddetta Zentrale Stelle (l’Ufficio Centrale per le indagini sui crimini nazisti) di Ludwigsburg, con Erwin Schüle come primo direttore, seguito da Adalbert Rückerl. Questo, insieme alla nomina a procuratore generale di Stato di Fritz Bauer, furono i presupposti sia per la cattura di Eichmann a Buenos Aires nel 1960 (fu lo stesso Bauer a passare le informazioni al Mossad perché non riteneva la giustizia tedesca in grado di intervenire in quel momento) sia, poco dopo, per il grande Processo di Francoforte, che si svolse tra il 1963 e il 1965.
Nel contempo, il Comitato Internazionale di Auschwitz (IAK) promosse due importanti iniziative editoriali che contribuirono ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica verso il tema dei crimini nazisti: la prima fu, nel 1958, la pubblicazione delle memorie di Höß, da lui redatte nell’ultimo anno di vita trascorso in prigione in attesa dell’esecuzione della condanna a morte. Il libro ottenne un successo strepitoso, tanto da rappresentare in quegli anni una delle maggiori fonti di finanziamento dello IAK (Stengel 2012, p. 284). In Italia sarà tradotta e pubblicata da Einaudi una prima volta nel 1960 e una seconda nel 1985, con una prefazione di Levi (OC II, pp. 1609-15). La seconda impresa fu l’antologia Auschwitz. Zeugnisse und Berichte, uscita nel 1962 dopo un’intricata vicenda editoriale (ricostruita qui): conteneva anche due capitoli di Se questo è un uomo, e fu l’occasione che inaugurò la corrispondenza tra Langbein e Levi.
Sempre del 1958 è, tra le altre cose, una nuova denuncia di Langbein (ancora a nome dello IAK) a dare l’avvio alle indagini che porteranno al Processo di Francoforte, quella contro l’SS Wilhelm Boger. Inizia a quel punto una conversazione epistolare tra Langbein e l’Ufficio Centrale, accompagnata da un concitato scambio di liste di imputati e testimoni, compliate da Langbein personalmente e poi spedite per correzioni e aggiunte in tutta Europa a vari altri sopravvissuti. Come noto, per l’istruttoria furono decisivi alcuni documenti ufficiali di Auschwitz contenenti le liste dei deportati uccisi, miracolosamente scampati a un incendio e fatti pervenire a Bauer da Emil Wulkan; ma accanto ad essi è difficile sopravvalutare l’importanza della rete di contatti attivata da Langbein, o il suo ruolo di mediazione – in piena Guerra Fredda – con i testimoni e le autorità orientali. Per esempio fu proprio lui a procurare ai magistrati occidentali un invito da parte di Kazimierz Smoleń, direttore del museo di Auschwitz, affinché potessero compiere un sopralluogo nel campo (Halbmayr 2012, p. 192).
Negli stessi anni si svolsero le indagini su Eichmann, a cui collaborarono anche Langbein, Simon Wiesenthal, Henry Ormond e Thomas Harlan (cfr. approfondimento) e che si concluderanno, come noto, con il suo arresto, rapimento e trasporto in Israele da parte del Mossad. Tra l’11 aprile ed il 15 dicembre 1961, in un teatro riconvertito di Gerusalemme e con riprese video spedite e trasmesse in tutto il mondo, si svolse il Processo Eichmann, che rappresentò un punto di svolta nella percezione dei crimini nazisti. Insieme a moltissimi giornalisti e ospiti internazionali, Langbein presenziò al processo (ancora come rappresentante dello IAK, poiché la rottura definitiva avvenne poco dopo), e assistette in prima persona a questo evento epocale che tra le altre cose segnò l’inizio della cosiddetta «era del testimone» (Wieviorka 1999). Oltretutto il viaggio servì a Langbein anche per rintracciare nuovi testimoni e per raccogliere alcuni contribuiti per l’antologia che stava preparando proprio in quei mesi (Stengel 2012, p. 468).
Il Processo di Francoforte, formalmente denominato «Procedimento penale contro Robert Mulka ed altri», iniziò il 20 dicembre 1963 e si concluse il 19 agosto 1965. In totale furono ascoltati 360 testimoni, di cui 211 ex prigionieri (provenienti da 19 paesi europei), 91 ex membri delle SS e 58 civili. Al banco degli imputati non sedevano né grandi criminali di guerra né burocrati, bensì coloro che avevano compiuto materialmente le violenze: per la prima volta fu appurato il funzionamento della macchina dello sterminio (Ponso, 161).
Langbein stesso testimoniò e fu presente in aula nella quasi totalità dei giorni di udienza (che furono 183), trasferendosi a Francoforte per più di un anno. Oltre a occuparsi concretamente e in prima persona dell’accoglienza degli ex deportati chiamati a testimoniare (molti tornavano in Germania per la prima volta), offrendo loro un sostegno materiale e psicologico, si occupò di documentare interamente le testimonianze (che registrava e inviava alla moglie a Vienna affinché le trascrivesse, Halbmayr 2012, p. 93-96, Pelinka 1993, p. 102) che confluiranno nel doppio volume sui processi pubblicato presso la Europäische Verlagsanstalt (Langbein 1965).
Nel frattempo, la Germania orientale aveva tra i suoi obiettivi quello di legittimarsi a livello internazionale come unico stato tedesco antifascista (in opposizione alla dottrina Hallstein), in particolare dopo la costruzione del muro di Berlino del 1961. Già nel 1950 si erano svolti i primi processi in Germania Est, noti come i Processi di Waldheim, tra il 21 aprile al 29 giugno: in quel caso furono processati 3324 imputati, accusati di crimini contro l’umanità; nell’opinione pubblica tuttavia il processo fece scandalo per le evidenti le storture procedurali riguardanti l’ascolto dei testimoni e la difesa degli imputati.
Nel corso degli anni sessanta, invece, un caso eclatante di tentativo di legittimazione fu la celebrazione, in contumacia, del Processo a Hans Globke nel 1963. Globke, per la Germania orientale, era il simbolo della scandalosa continuità tra il regime nazionalsocialista e la Germania occidentale: da giurista e consigliere del Ministero dell’interno del Reich, aveva collaborato alla stesura delle leggi razziali antisemite e nella Germania federale degli anni cinquanta era diventato segretario di Stato e strettissimo confidente di Adenauer. Il processo si concluse, in assenza dell’imputato, con una condanna all’ergastolo.
Non si fece attendere neanche la risposta orientale al Processo di Francoforte: nel 1966 ebbe luogo il Processo Fischer in cui la IG Farben, nella persona del medico Horst Paul Fischer, fu accusata di essere responsabile della morte di 75000 persone: l’imputato venne condannato a morte l’8 luglio del 1966. Anche in questo caso si trattava di un processo esemplare, che doveva colpire idealmente, oltre al singolo imputato, l’apparato industriale capitalista connivente con il nazionalsocialismo. In questa occasione Langbein non fu chiamato a testimoniare, nonostante il superiore di Fischer ad Auschwitz fosse proprio Eduard Wirths, di cui Langbein era stato il segretario (Dirks 2006).
Il caso dell’Austria
Parallelamente Langbein si era attivato sul versante austriaco, per tentare anche lì di dar vita a un Processo Auschwitz. Non è un caso se qui i tentativi – la prima denuncia è del 31 marzo 1960, contro il medico Georg Meyer ad Auschwitz – andarono incontro a un fallimento quasi totale. Infatti, nel dopoguerra, in Austria non venne attivato alcun processo di denazificazione e si registrò una sostanziale continuità tra la classe dirigente del periodo di occupazione e quella del dopoguerra: al concetto di Vergangenheitsbewältigung, rielaborazione del passato nazista, si rispose con il mito nazionale della vittima, la cosiddetta Opferthese, (Botz 1996, Weinke 2006, pp. 71-72). A partire dagli anni settanta sono noti i casi del governo socialdemocratico di Bruno Kreisky, con ben quattro ministri ex nazisti (e la relativa controversia con Wiesenthal), e addirittura l’elezione di Kurt Waldheim (ex ufficiale della Wehrmacht sospettato di aver commesso crimini di guerra nei Balcani) prima a Segretario generale delle Nazioni Unite (nel 1971) e poi a Presidente dell’Austria dal 1985 al 1992.
La giustizia austriaca tra gli anni sessanta e settanta aprì indagini per più di sessanta persone, su spinta principalmente di Langbein e Wiesenthal. Si trattava di medici, guardie, tecnocrati, e membri all’amministrazione politica e militare di Auschwitz. Tra questi l’Ufficiale aiutante del comandante di Auschwitz Johann Schindler, denunciato da Langbein e Wiesenthal nel febbraio del 1962 (Loitfellner 2006). L’idea era costituire come a Francoforte un unico processo unitario, lo Auschwitz-Stammverfahren austriaco, ma l’ostruzionismo del sistema giuridico da un lato e la difficoltà di reperire testimoni dall’altro fecero naufragare il progetto dopo anni di rinvii; solo nel 1972, con la nomina del pubblico ministero Hugo Kresnik si riuscì a istituire almeno due processi contro quattro imputati (e contro Walter Dejaco e Fritz Karl Ertl dal 19 gennaio al 10 marzo 1972, e contro Otto Graf e Franz Wunsch dal 25 aprile al 27 giugno 1972) che però si conclusero con l’assoluzione. Subito dopo il ministro della Giustizia Christian Broda ordinò l’interruzione di tutti gli altri procedimenti. Se Langbein fu certo deluso da questo esito disastroso, che arrivava dopo un’attesa decennale, d’altro canto la vera battaglia per la giustizia sui crimini nazifascisti si giocava, per lui, nella Repubblica Federale tedesca (Stengel 2012, pp. 546-7).
Gli anni settanta
In Germania la rottura generazionale del Sessantotto è stata fortemente influenzata dal tema del confronto con il passato nazista, esemplificato dall’iconico schiaffo pubblico accompagnato dal grido di denuncia «Nazi, Nazi!» della giovane attivista Beate Klarsfeld al Cancelliere Kiesinger durante l’assemblea generale della CDU, il 7 novembre 1968. Dal punto di vista dei processi, però, nonostante il numero di indagini aperte e di procedimenti intentati, si verifica un sostanziale fallimento rispetto al decennio precedente.
Si è visto come i processi austriaci si rivelino quasi una beffa: scorrendo il carteggio tra Langbein e Levi, si scopre che nell’aprile del 1972 Langbein non aveva ancora rinunciato a cercare testimoni per il caso Schindler, e Levi aveva fornito i contatti di quattro italiane (Elena Napolitano, Giuliana Tedeschi, Luciana Momigliano, Bianca Morpurgo, si veda la lettera 27) che però non potranno valere come testimoni.
In Germania federale le cose non andavano meglio. Per conto del nuovo comitato di cui fa parte (il CIC), Langbein già a partire dal 1963 redige e diffonde nella sua rete di conoscenze un bollettino mensile di informazione (il cui Nr. 54, del 2 settembre 1974 è allegato alla lettera 047 del carteggio), in cui trasmette anche le notizie sui processi e sugli imputati. Le principali critiche di Langbein ai processi in corso sono i tempi dilatati e la non effettività delle pene. Un caso su tutti è quello di Albert Ganzenmüller, sottosegretario del Reich responsabile per le ferrovie, e dunque implicato nella deportazione degli ebrei. Dopo la fuga in Argentina nel 1945 rientra in Germania nel 1955, dove vengono istituiti diversi processi contro di lui, ogni volta sospesi per mancanza di prove. L’ultimo, intentato nell’aprile del 1973 dal tribunale di Düsseldorf, fu interrotto a causa di problemi di salute dell’imputato e poi sospeso definitivamente nel 1977.
Langbein riporta notizia di diversi altri processi nel corso degli anni settanta, a Mannheim (contro a Richard Pal), Amburgo (Processo di Lublino, Slonim e dei collaboratori di Globocnik), Kiel (Processo di Mogilëv) e ancora a Francoforte (contro Gomerski), evidenziandone i fallimenti.
Anche il caso di Friedrich Boßhammer, condannato all’ergastolo nell’aprile del 1972, rientra in questo quadro: già negli anni Sessanta il tribunale di Dortmund aveva cominciato le indagini sull’ex-Sturmbannführer, collaboratore diretto di Eichmann, accusato della deportazione di 3500 ebrei italiani. Durante le indagini fu coinvolto anche il CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e furono chiamati a testimoniare anche Primo Levi e Leonardo De Benedetti (Levi 2015, p. 223 e sgg.). Nel 1972 si arrivò alla sentenza di ergastolo, ma l’imputato morì pochi mesi dopo la fine del processo e non scontò alcuna pena.
Con gli anni settanta si chiude dunque in minore la grande stagione dei processi, e man mano si attenua l’impegno di Langbein su quel campo di battaglia specifico. C’è infatti bisogno di combattere una nuova battaglia per la memoria, legata alla prima, ma profondamente diversa: quella contro il negazionismo e il revisionismo storico e contro la preoccupante ondata dei movimenti neonazisti e neofascisti in Europa.